“Ciò
che stiamo facendo è dovuto ad uno stato d’eccezione, mi lego a questo e
al programma su cui il Parlamento ci ha dato la fiducia”, Enrico Letta, 5 giugno 2013.
“Sovrano è chi decide sullo Stato di eccezione”, Carl Schmitth.
Nel
caos dell’inutilità di un confronto politico sconfortante e
opportunamente offuscato dal chiasso ipocrita di coloro che stanno dalla
stessa parte, chi decide procede con passi da gigante verso l’utilizzo
di quello stesso strumento politico che facilitò l’ascesa di Hitler al
potere. Si chiama Stato di eccezione (permanente), lo si ritrova, come
si vedrà meglio in seguito, nelle affermazioni del primo ministro
italiano Enrico Letta
Non si ha certo la pretesa di assimilare gli obiettivi dello Stato di
eccezione invocato dall’attuale governo a quelli del Führer. D’altra
parte non si può nemmeno venire meno al dovere di allertare una
vigilanza democratica sugli altissimi rischi di sospensione della
Democrazia che si corrono quando si invoca un mezzo politico tanto
potente quanto incerto.
Un po’ di storia e di dibattito giuridico
sono essenziali per comprendere la portata del fenomeno, si procederà
poi con un tentativo di ricostruzione dell’attuale scenario politico,
che evidentemente mira ad un imponente abbattimento dei diritti: da
quelli che compongono l’assetto costituzionale, come le prerogative del
Parlamento, a quelli dei lavoratori, ormai privati della libertà di
potere programmare un futuro dignitoso.
Giorgio Agamben, nel suo libro (Lo Stato di eccezione,
2003), definisce lo Stato di Eccezione come “quella sospensione
dell’ordine giuridico che siamo abituati a considerare una misura
provvisoria e straordinaria”, e avverte che tale strumento politico sta
diventando un “paradigma normale di governo”, in cui l’eccezione viene
confusa con la regola, gli equilibri costituzionali cessano di
funzionare e il confine fra democrazia e assolutismo tende a
cancellarsi.
Lo Stato di eccezione è stato teorizzato per la prima volta da Carl Schmitt
nel 1921, politologo e giurista nonché sostenitore del regime nazista,
che considerava lecita la dittatura se interpretata come misura
temporanea ed eccezionale. In uno dei suoi principali scritti (La dittatura, 1921, cui segue Teologia politica,
1922), egli individua due tipi di dittature: quella “commissaria” e
quella “sovrana”. Nella prima la “eccezione” ha come obiettivo il
ripristino o la modifica della Costituzione vigente, mentre la seconda è
riconducibile ad un “gioco di forza” messo in atto da un potere
politico che intende creare un nuovo “ordine”.
L’allargamento dei poteri “legislativi” dell’esecutivo,
con un conseguente indebolimento delle prerogative costituzionali del
Parlamento e del principio della separazione dei poteri, è storicamente
legato a due ordini di emergenze: la guerra e/o la crisi economica.
Il
livello di massima espressione dell’invadenza del potere esecutivo
nell’attività legislativa riconducibile al concetto di Stato di
eccezione è stato raggiunto con il regime nazista dove le parole del
Führer assumevano “forza di legge” (Eichmann).
Come
messo in evidenza da Agamben, Hitler non avrebbe probabilmente potuto
prendere il potere se gli ultimi anni della Repubblica di Weimar non
fossero stati condotti in regime di Stato di eccezione, una dittatura presidenziale che di fatto determinò la fine della repubblica parlamentare.
Attenzione, tecnicamente né Hitler né Mussolini sospesero le
costituzioni vigenti, ma affiancarono ad esse un sistema di potere
“avente forza di legge” giustificato dallo Stato di eccezione,
determinando in tal modo l’esistenza di ciò che viene definito “Stato
duale”.
In
Italia, lo Stato di eccezione si manifesta con la decretazione
d’urgenza. Dai governi fascisti sino ai giorni nostri essa è divenuta
una prassi, ossia una regola e non una vicenda straordinaria (Stato di
eccezione permanente). Ciò significa che il Parlamento non è più
l’organo sovrano cui spetta il potere legislativo, assorbito, in quote
via via crescenti, dall’esecutivo.
La divisione dei poteri garantita formalmente dal nostro assetto costituzionale è venuta meno, e “in senso tecnico, la Repubblica non è più parlamentare, ma governamentale” (Agamben).
Dopo
questa breve dissertazione, risulta abbastanza chiaro che chiunque
abbia un minimo di cognizione circa il valore storico-politico dello
Stato di eccezione non si lascia sfuggire la portata delle affermazioni
del ministro Letta.
Si
potrebbe facilmente obiettare che l’abuso dello strumento normativo
(decreto-legge) di cui dispone l’esecutivo “nei casi straordinari di
necessità e di urgenza” (art. 77 Cost.) sia ormai
divenuta una prassi consolidata, e ciò ridurrebbe il carattere per così
dire straordinario delle dichiarazioni del premier.
Ciò
è vero, ma se si considera l’aggravarsi della crisi economica e sociale
che soffoca il paese (“eccezione”) e il dichiarato intento di
modificare la Costituzione avendo come obiettivi sia un non meglio
definito presidenzialismo (si rimanda alle recenti critiche di Aldo Giannuli) sia la consistente cessione di sovranità in favore di entità sovranazionali (nuovo “ordine”), in primis
l’Unione Europea, ci si rende agevolmente conto che la progressiva
sospensione delle garanzie costituzionali sta trasformando la nazione in
un “terra di conquista” in cui il sovrano non coincide con il popolo ma
con l’oligarchia politica che è in grado di affermarsi secondo un “puro
gioco di forze”. Una volta che la strada è spianata non ci si può
aspettare che nessuno la percorra.
In
politica una parola non vale l’altra, e il netto richiamo del Governo
allo Stato di eccezione potrebbe essere interpretato come il chiaro
intento di volersi spingere molto oltre i limiti che la Costituzione
impone al Governo per l’utilizzo del potere legislativo in circostanze
“eccezionali”.
In altri termini, mentre la decretazione d’urgenza può essere definita come il limite inferiore dello Stato di eccezione,
poiché costretta entro un certo confine “giuridico” interno in cui le
violazioni sono contestabili in quanto abusi, l’aver ricondotto
esplicitamente il proprio operato politico ad un siffatto regime, di per
se stesso privo di limiti definiti, potrebbe essere inteso come una
precisa volontà politica di travalicare qualsiasi barriera democratica,
determinando di fatto una vera e propria sospensione dell’ordine
giuridico esistente.
Cosa
ci attende? Difficile a dirsi, ma ad ogni modo è relativamente certo
che lo Stato di eccezione che si sta manifestando in questa fase
politica si muove, come già accennato, entro due direttrici: il
presidenzialismo e la creazione di una unione politica a livello
europeo. La prima fortemente voluta da Berlusconi e la seconda
perfettamente in linea con il progetto europeista di cui la sinistra non
fa certo mistero.
Ciò
che unisce queste due “visioni” è ovviamente l’accentramento dei poteri
nelle mani di pochi, fine che per essere raggiunto necessita di un
“legittimo” indebolimento del Parlamento nazionale.
E’ facile ipotizzare che sia attualmente in corso una “negoziazione” politica per la ricerca di un punto di equilibrio fra
i diversi portatori di interessi “privilegiati”, tutti comunque
condizionati da un vincolo esterno, ossia la crisi della economia reale
da cui dipende il consenso elettorale. L’abbattimento dei diritti dei
lavoratori in paesi come l’Italia che sino a un po’ di anni addietro
potevano vantare un livello di tutele degno di un paese civile è
espressione di questi obiettivi politici: la crisi dell’euro,
o meglio ancora della bilancia dei pagamenti che più esprime il
“deficit” di produzione e gli altri squilibri dell’eurozona obbligano a
far leva sulla riduzione del costo del lavoro per potere mantenere una
moribonda competizione nei mercati esteri pur di non mettere in
discussione la moneta unica.
Rimandando
ad altre sedi gli approfondimenti relativi alla sostenibilità dell’euro
e ai motivi per cui l’austerità colpisce anche territori dotati di una
propria sovranità monetaria come la Gran Bretagna, è fortemente
improbabile che le scelte politiche “eccezionali” con cui si intende far
fronte alla crisi siano nella direzione di una soluzione democratica e
orientata al benessere collettivo. In primo luogo perché sia l’ordinamento interno che quello comunitario dispongono già degli strumenti necessari allo scopo,
è una questione di scelte politiche. L’unico effetto “utile” che si
otterrebbe con la creazione di un nuovo “ordine” sarebbe quello di
allontanare chi decide da chi dovrebbe eleggerlo. Fermo restando, si
badi bene, che i regimi, dai più democratici ai più assolutistici,
sopravvivono a lungo se supportati dal consenso del popolo. Questa
verità storica obbligherà la politica a confrontarsi con i problemi
reali, ed è in questo senso che deve essere interpretato il dietro front sull’austerità, in realtà ancora tutto da dimostrare.
Il
fatto poi che il primo ministro nel commentare i lavori dell’esecutivo
affermi che “se faremo un buon lavoro la democrazia italiana tornerà ad
essere una democrazia matura” non sposta i termini delle questioni
esposte, nel senso che non si comprende in che maniera il trattamento
riservato alla Costituzione possa garantire maggiore democrazia. Al
contrario, si rivela la volontà di creare un nuovo “ordine” sovranazionale di matrice europeista,
evidentemente più incisivo rispetto a quello attuale, piuttosto che il
ripristino o la modifica della Costituzione vigente. Secondo il pensiero
schmittiano, rispettivamente “dittatura sovrana” e “dittatura
commissaria”. Anche se non è questo il contesto per discuterne, la prima
scelta deve essere necessariamente inserita nell’ambito dell’acceso
dibattito giuridico inerente la collocazione dello Stato
nell’ordinamento internazionale e l’incerto significato reale della multilevel governance
(v. più avanti il richiamo al libro di G.L. Cecchini) con cui si
legittima, per certi versi, la gerarchizzazione del rapporto fra stati
membri e Unione Europea. Il fatto che il “sistema” reputi necessario
spingere verso un rafforzamento dei poteri dell’UE, ed in particolare in
favore della creazione degli Stati Uniti d’Europa, è da interpretare
come una dimostrazione di “debolezza” dell’attuale impianto comunitario.
Se
“sovrano è chi decide sullo Stato di eccezione” (Schmitth) allora
l’affermazione di Enrico Letta dovrebbe essere intesa come una sorta di
autoproclamazione dell’esecutivo a “sovrano d’Italia”, ovvero come dichiarata sospensione del principio della separazione dei poteri.
Nonostante
il quadro non sia certamente confortante, si invita il lettore a
considerare questo articolo come un supporto per potersi orientare nella
giungla mediatica.
Senza
appesantire ulteriormente la lettura, e con la promessa di ritornare
sull’argomento, si riporta di seguito la coraggiosa riflessione del
giurista Gian Luigi Cecchini, contenuta nel suo recente libro “Il colpo di stato – Media e diritto internazionale” (2012), scritto assieme al giornalista Giuseppe Liani.
“Il
supremo potere coercitivo, ossia il potere di disporre, attraverso
catene di comando dirette, l’implementazione coercitiva del diritto
[spetta] al Governo, organo soggetto al Parlamento, sempre che non si
tratti di un Governo cui siano stati surrettiziamente attribuiti poteri
speciali dal Presidente della Repubblica con il consenso degli stessi
partiti, che, di tal guisa, abdicando alle proprie funzioni, avrebbero
favorito un vero e proprio auto-colpo di stato”.
Breve nota per gli addetti ai lavori.
Lo scritto di Cecchini contiene un interessante commento critico circa
l’impostazione adottata da Agamben nei termini in cui esso tenta di
delineare una dimensione dello Stato di eccezione non ascrivibile nel
novero delle teorizzazioni giuridiche (capitolo V), nel senso di
appartenenza dello stato di eccezione all’ordine giuridico, questione
strettamente legata al suo collegamento con il diritto internazionale
che, secondo l’autore, risulta assente nella trattazione di Agamben.
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